“Tengo
claro que del segundo no se acuerda nadie. Perder dos
finales es un fracaso. Ahora tenemos que curarnos las heridas en
casa. Necesito un tiempo de reflexión para saber que he aprendido de
perder estas dos finales. Aún es muy pronto para sacar ese tipo de
conclusiones.
El que gana siempre es mejor. El Madrid fue mejor porque ganó y nosotros no pudimos resolver en la tanda de penaltis la posibilidad de salir campeón. ¿Qué le digo a la gente? Que la única manera de seguir insistiendo es trabajando, que es un momento para pensar de parte mía y en ese momento estoy”.
El que gana siempre es mejor. El Madrid fue mejor porque ganó y nosotros no pudimos resolver en la tanda de penaltis la posibilidad de salir campeón. ¿Qué le digo a la gente? Que la única manera de seguir insistiendo es trabajando, que es un momento para pensar de parte mía y en ese momento estoy”.
Diego
Simeone
Non
è stata una bella notte, affatto.
Per
anni l'ho sognata, la notte in cui mi sarei addormentato da Campione
d'Europa. Per anni. E invece, ancora una volta, ho sperato che il
sonno portasse via la tristezza e mi regalasse l'oblio, o magari la
guarigione, che in fondo sarebbe la stessa cosa: svegliarsi e non
ricordarsi più di essere stato tifoso; alzarsi dal letto, guardare
le notizie facendo colazione e pensare “Toh, ieri c'è stata la
finale di calcio (sic!) e ha vinto quella squadra in maglia
bianca allenata dal tizio che diede una testata a Materazzi ai
mondiali di Germania”.
Purtroppo,
però, non è questo l'universo in cui si avverano i sogni. Mi sono
svegliato e il mio dolore era ancora lì, in quel luogo non ben
identificato che va dalla gola al cuore e dal quale non se ne andrà
per mesi. Era ancora lì e mi si sono inumiditi gli occhi, come so
per certo che accadrà spesso nel prossimo futuro.
Non
ho visto la partita, lo ammetto. Probabilmente la mia confessione
sconvolgerà molti di voi, ma non posso farci niente. Ho una certa
età, ormai. Vengo da un anno molto duro. Non ero sicuro di poter
reggere l'ansia di una seconda finale contro i nemici di sempre.
Nella mia città, poi.
Non
so, forse ho lasciato soli i ragazzi e questo ha determinato la
sconfitta (me lo sono chiesto, davvero), ma ho i miei riti a
proposito dei derby. Riti che fino a ieri avevano funzionato
alla grandissima, (quasi) sempre.
Ero
a Torino con amici che, gentilmente, mi hanno portato fuori e hanno
sopportato la mia disattenzione, il mio mutismo. Non guardavo la
partita ma ero con i ragazzi, eccome se c'ero. Ho sofferto anche di
più, probabilmente. Altri amici, caritatevoli, mi informavano via
Whatsapp o mi incoraggiavano.
Della
partita, quindi, non saprei cosa dire, a parte il poco che ho letto:
abbiamo iniziato male, abbiamo preso un gol in fuorigioco (il Real
che in una finale segna in fuorigioco, questo sì che non è mai
accaduto...); ci siamo svegliati con l'ingresso di Carrasco nel
secondo tempo, quando abbiamo giocato molto meglio del Real, ma
abbiamo sbagliato un rigore prima di siglare il gol del pareggio. Ai
rigori, altro errore.
Non
credo ci sia nient'altro da dire: siamo stati lungamente superiori,
eravamo superiori, ma non abbiamo concretizzato. Tuttavia,
posso davvero prendermela con qualcuno? E con chi, in realtà? Con
Griezmann, che ci ha trascinati fin qui? Con Fernando
Torres, colpevole solo di non essere più il giocatore che
era, ma solo una buona riserva costretto dagli eventi a fare il
titolare? Con Gabi, il gran capitano, perché è semplicemente
se stesso e non un regista fenomenale? Con Juanfran, il
supremo combattente? Con Simeone, che ci ha trascinato di
forza, di pura volontà, alla seconda finale in tre anni?
Non
posso avercela con nessuno, in realtà. Non voglio neanche farlo,
perché nessuno se lo merita.
Ce
l'ho con la Sorte, questo sì. Gli amici hanno cercato di consolarmi,
carini come sempre, con una bella sfilza di osservazioni sagge e
giuste e di buon senso: non c'è disonore nel perdere ai rigori; le
finali le perde solo chi ci arriva; devo essere orgoglioso della mia
squadra e posso andare in giro a testa alta. Tutto vero. E giusto. E
bello. Come le parole di Gabi, el gran capitán,
subito dopo la partita: “Sono sicuro che questa squadra vincerà
una Champions perché se lo merita”. Già, il merito...
Che
cos'è questo merito? Davvero, qualcuno me lo spieghi.
Una
squadra di ottimi giocatori e non pochi campioni arriva alla sua
seconda finale in tre anni grazie al lavoro, all'organizzazione,
all'altruismo e alla reciproca solidarietà di tutti i suoi membri e,
per la seconda volta in tre anni, perde la Coppa senza aver perso la
partita giocata nei 90 minuti. Come nel 1974, altra grande occasione
sprecata: e sono tre finali su tre perse in modo assurdo, ovverosia
senza venire sconfitti sul campo...
Dall'altra
parte, la squadra avversaria, ricca e potente, arriva all'ennesima
finale senza meritarselo, in virtù di un sorteggio favorevole e
delle fiammate estemporanee dei suoi viziati e arroganti fuoriclasse.
Il suo presidente ha mandato via in malo modo un grande allenatore
per chiamarne uno limitato e saccente, a sua volta sostituito da una
figurina senza nessuna esperienza, mediocre nel gestire la squadra
giovanile (quando conta la mano del coach e non la classe
degli interpreti...) e incapace di risolvere uno qualunque dei
problemi tattici lasciati dal predecessore e dal mercato. Due dei
giocatori più importanti, Keylor Navas e Casemiro,
sono stati più e più volte umiliati dalla società perché troppo
di sostanza e poco glamour, venduti loro malgrado o messi da
parte finché non ci si è resi conto che erano fondamentali (ma
anche così, sono solo sopportati come un male necessario). Le stelle
strapagate si sono distinte più sui giornali che sul campo, come
spesso capita nelle partite decisive o contro squadre di un certo
livello. Anzi, una di loro ancora una volta ha esultato dopo un
rigore, l'unica traccia della sua presenza, come se avesse segnato
una tripletta decisiva. Con la solita sfrontata maleducazione da
guappo 'e cartone, come dicono a Napoli. Maleducazione che ha
esibito anche Pepe, energumeno adibito a picchiare i
centravanti avversari fidando nella protezione data dalla maglia
blanca, quando ha commentato la vittoria (cui non ha
contribuito, visto che ha causato un rigore che avrebbe potuto essere
decisivo) sostenendo che Madrid ha una sola squadra...
E
quindi, va bene, amici miei e mio gran capitán,
il calcio è solo un gioco, devo essere orgoglioso etc etc, ma dov'è
il merito, in tutto questo?
Vi
ripeto: dov'è? Perché il calcio ieri sera è sembrato ancora una
volta una terribile metafora della vita, di questa vita, dove premi e
gioia sembrano essere assegnati a caso e comunque sempre a chi ha già
troppo e non ne avrebbe bisogno?
Piove
sul bagnato, si dice. E spesso si aggiunge che i soldi portano soldi.
E il lavoro? E l'impegno? Cosa portano? Che lezione dobbiamo trarre
dalla partita di ieri? Se è quella che sembra, non lascia molte
speranze: bastano i soldi, per rimediare ai guasti gestionali
dell'arroganza e del pressapochismo. E tanti saluti
alla meritocrazia...
E
poi vi stupite che io pianga per una partita di calcio?
Se
poi qualcuno vuole ammanirmi la solita storia che ci sono migliaia di
cose più importanti del calcio, lasci stare. Lo so che il calcio è
solo un gioco. Che c'è una guerra in Siria, la crisi economica
continua e il riscaldamento globale ci cancellerà dalla faccia della
terra, per non parlare della Mafia, del terrorismo e della povertà
di interi continenti. Lo so bene.
So
anche, però, che, se non c'è giustizia neppure in uno stupido
gioco, è difficile credere che possa esistere altrove. Saúl
ieri sera ha detto inconsapevolmente la stessa cosa con parole
diverse: “Questo spogliatoio non si merita che gli capiti due volte
tutto ciò”. Già, non se lo merita... Cos'è il merito? Perché
così spesso, perfino in un gioco, c'è un così grande scollamento
tra realtà e giustizia?
Ecco
perché ieri avevo gli occhi lucidi. Li avevo anche oggi e li avrò
anche domani.
Stamani,
per assecondare il mio umore, ho deciso di salire a Superga, dove non
ero mai stato. Salivo per la strada che mi pareva interminabile e
continuavo a rimuginare gli stessi pensieri, senza trovare
consolazione. “Perché mi è toccata in sorte questa squadra?”,
mi chiedevo.
Forse
è solo questione di prospettiva, mi sono detto: quante sono le
squadre europee che possono dire di essere arrivate tre volte in
finale di Coppa dei Campioni? Poche, pochissime... Non l'Arsenal, per
esempio. Nè l'Anderlecht. Quante quelle che possono a ragione
nutrire il dubbio di essere maledette, ogni volta che si approcciano
una finale? Così, a occhio, squadre di rango come Benfica e
Juventus. E quante quelle che, verosimilmente, non ci
arriveranno mai o mai più? Tantissime, dallo Sporting Lisbona
all'Ajax, dall'Everton al Celtic, dalla Steaua Bucarest al Napoli o
alla Roma...
La
verità è che la mia condizione è comune a moltissime persone, in
ogni parte del mondo, tutte quelle che non tifano per poche,
pochissime squadre.
Anche
così, però, era difficile trovare consolazione. Essere arrivati a
una o più finali non garantisce nessuna ipoteca sul futuro: la
storia è fatta di momenti di cui bisogna approfittare, perché
certezze non ce ne sono. Neppure PSG e Manchester City possono essere
sicure, dall'alto dei propri petroldollari, di poterci arrivare,
figuriamoci di vincere.
Anche
il calcio, come la storia, vive di snodi fondamentali, che possono
cambiare senso e verso di un'era: cosa sarebbe stato del Real, se Di
Stefano fosse approdato al Barcellona? Cosa rimane di squadroni come
il Bologna degli anni trenta, la formidabile Honved o lo Sporting
Lisbona “dei cinque violini”, fioriti quando le coppe europee
ancora non esistevano?
Come
potevano sapere, i tifosi di molte di queste squadre, che non
avrebbero mai più rivisto i loro club a quel livello? Che le
bacheche le avrebbero riempite gli altri, altri che allora spesso
nessuno conosceva? Chissà in che modo declinano la domanda “Perché
mi è toccata in sorte questa squadra?”.
E
il Grande Torino? Come dimenticare il Grande Torino?
Cosa
significa tifare per una squadra il cui momento di gloria
irripetibile è ormai dietro alle spalle? Come si sopravvive a una
tale sorte? Come si convive con l'altra metà del cielo, quella
bianconera, che invece ha tutto,a partire dai soldi e dal potere?
Come si coesiste con la consapevolezza che la Sorte è stata
tremendamente crudele, ti ha tolto non solo una squadra fenomenale ma
anche un presente che probabilmente sarebbe stato molto diverso?
“Se
una sola delle finali dell'Atletico fosse andata diversamente, che
spartiacque sarebbe stato, per la nostra storia?”, mi sono spesso
chiesto. Però, davanti alla lapide di Superga, in mezzo a un
meraviglioso bosco che nulla lasciava trasparire della tragedia
infinita di quasi settant'anni fa, mi è parso che la mia domanda
fosse piccola piccola. Che la mia voglia di lasciar perdere, di non
soffrire più così tanto, non avesse senso. Cosa dovrebbe dire un
tifoso del Toro? Cosa avrebbe dovuto pensare un tifoso del Toro
allora, quando fu spogliato non di una vittoria, ma della Speranza?
Dov'era il merito, in quello schianto? Dove la Giustizia?
Ho
sostato un po' davanti alla lapide coi miei pensieri. Ho pensato a
capitan Valentino e a Diego Godin. Ho pensato che i
nostri guerrieri ci sono ancora.
Non
ci sarà giustizia, non ci sarà merito, ma i nostri guerrieri ci
sono ancora...
”Es
un golpe duro, pero nos
levantaremos. Este
es un grupo ganador. Estoy orgullosísimo de mis compañeros, vamos
a seguir peleando".
Diego
Godin