domenica 29 maggio 2016

The day after



Tengo claro que del segundo no se acuerda nadie. Perder dos finales es un fracaso. Ahora tenemos que curarnos las heridas en casa. Necesito un tiempo de reflexión para saber que he aprendido de perder estas dos finales. Aún es muy pronto para sacar ese tipo de conclusiones.
El que gana siempre es mejor. El Madrid fue mejor porque ganó y nosotros no pudimos resolver en la tanda de penaltis la posibilidad de salir campeón. ¿Qué le digo a la gente? Que la única manera de seguir insistiendo es trabajando, que es un momento para pensar de parte mía y en ese momento estoy”.

Diego Simeone



Non è stata una bella notte, affatto.

Per anni l'ho sognata, la notte in cui mi sarei addormentato da Campione d'Europa. Per anni. E invece, ancora una volta, ho sperato che il sonno portasse via la tristezza e mi regalasse l'oblio, o magari la guarigione, che in fondo sarebbe la stessa cosa: svegliarsi e non ricordarsi più di essere stato tifoso; alzarsi dal letto, guardare le notizie facendo colazione e pensare “Toh, ieri c'è stata la finale di calcio (sic!) e ha vinto quella squadra in maglia bianca allenata dal tizio che diede una testata a Materazzi ai mondiali di Germania”.

Purtroppo, però, non è questo l'universo in cui si avverano i sogni. Mi sono svegliato e il mio dolore era ancora lì, in quel luogo non ben identificato che va dalla gola al cuore e dal quale non se ne andrà per mesi. Era ancora lì e mi si sono inumiditi gli occhi, come so per certo che accadrà spesso nel prossimo futuro.

Non ho visto la partita, lo ammetto. Probabilmente la mia confessione sconvolgerà molti di voi, ma non posso farci niente. Ho una certa età, ormai. Vengo da un anno molto duro. Non ero sicuro di poter reggere l'ansia di una seconda finale contro i nemici di sempre. Nella mia città, poi.
Non so, forse ho lasciato soli i ragazzi e questo ha determinato la sconfitta (me lo sono chiesto, davvero), ma ho i miei riti a proposito dei derby. Riti che fino a ieri avevano funzionato alla grandissima, (quasi) sempre.
Ero a Torino con amici che, gentilmente, mi hanno portato fuori e hanno sopportato la mia disattenzione, il mio mutismo. Non guardavo la partita ma ero con i ragazzi, eccome se c'ero. Ho sofferto anche di più, probabilmente. Altri amici, caritatevoli, mi informavano via Whatsapp o mi incoraggiavano.

Della partita, quindi, non saprei cosa dire, a parte il poco che ho letto: abbiamo iniziato male, abbiamo preso un gol in fuorigioco (il Real che in una finale segna in fuorigioco, questo sì che non è mai accaduto...); ci siamo svegliati con l'ingresso di Carrasco nel secondo tempo, quando abbiamo giocato molto meglio del Real, ma abbiamo sbagliato un rigore prima di siglare il gol del pareggio. Ai rigori, altro errore.
Non credo ci sia nient'altro da dire: siamo stati lungamente superiori, eravamo superiori, ma non abbiamo concretizzato. Tuttavia, posso davvero prendermela con qualcuno? E con chi, in realtà? Con Griezmann, che ci ha trascinati fin qui? Con Fernando Torres, colpevole solo di non essere più il giocatore che era, ma solo una buona riserva costretto dagli eventi a fare il titolare? Con Gabi, il gran capitano, perché è semplicemente se stesso e non un regista fenomenale? Con Juanfran, il supremo combattente? Con Simeone, che ci ha trascinato di forza, di pura volontà, alla seconda finale in tre anni?
Non posso avercela con nessuno, in realtà. Non voglio neanche farlo, perché nessuno se lo merita.

Ce l'ho con la Sorte, questo sì. Gli amici hanno cercato di consolarmi, carini come sempre, con una bella sfilza di osservazioni sagge e giuste e di buon senso: non c'è disonore nel perdere ai rigori; le finali le perde solo chi ci arriva; devo essere orgoglioso della mia squadra e posso andare in giro a testa alta. Tutto vero. E giusto. E bello. Come le parole di Gabi, el gran capitán, subito dopo la partita: “Sono sicuro che questa squadra vincerà una Champions perché se lo merita”. Già, il merito...

Che cos'è questo merito? Davvero, qualcuno me lo spieghi.
Una squadra di ottimi giocatori e non pochi campioni arriva alla sua seconda finale in tre anni grazie al lavoro, all'organizzazione, all'altruismo e alla reciproca solidarietà di tutti i suoi membri e, per la seconda volta in tre anni, perde la Coppa senza aver perso la partita giocata nei 90 minuti. Come nel 1974, altra grande occasione sprecata: e sono tre finali su tre perse in modo assurdo, ovverosia senza venire sconfitti sul campo...
Dall'altra parte, la squadra avversaria, ricca e potente, arriva all'ennesima finale senza meritarselo, in virtù di un sorteggio favorevole e delle fiammate estemporanee dei suoi viziati e arroganti fuoriclasse. Il suo presidente ha mandato via in malo modo un grande allenatore per chiamarne uno limitato e saccente, a sua volta sostituito da una figurina senza nessuna esperienza, mediocre nel gestire la squadra giovanile (quando conta la mano del coach e non la classe degli interpreti...) e incapace di risolvere uno qualunque dei problemi tattici lasciati dal predecessore e dal mercato. Due dei giocatori più importanti, Keylor Navas e Casemiro, sono stati più e più volte umiliati dalla società perché troppo di sostanza e poco glamour, venduti loro malgrado o messi da parte finché non ci si è resi conto che erano fondamentali (ma anche così, sono solo sopportati come un male necessario). Le stelle strapagate si sono distinte più sui giornali che sul campo, come spesso capita nelle partite decisive o contro squadre di un certo livello. Anzi, una di loro ancora una volta ha esultato dopo un rigore, l'unica traccia della sua presenza, come se avesse segnato una tripletta decisiva. Con la solita sfrontata maleducazione da guappo 'e cartone, come dicono a Napoli. Maleducazione che ha esibito anche Pepe, energumeno adibito a picchiare i centravanti avversari fidando nella protezione data dalla maglia blanca, quando ha commentato la vittoria (cui non ha contribuito, visto che ha causato un rigore che avrebbe potuto essere decisivo) sostenendo che Madrid ha una sola squadra...

E quindi, va bene, amici miei e mio gran capitán, il calcio è solo un gioco, devo essere orgoglioso etc etc, ma dov'è il merito, in tutto questo?
Vi ripeto: dov'è? Perché il calcio ieri sera è sembrato ancora una volta una terribile metafora della vita, di questa vita, dove premi e gioia sembrano essere assegnati a caso e comunque sempre a chi ha già troppo e non ne avrebbe bisogno?
Piove sul bagnato, si dice. E spesso si aggiunge che i soldi portano soldi. E il lavoro? E l'impegno? Cosa portano? Che lezione dobbiamo trarre dalla partita di ieri? Se è quella che sembra, non lascia molte speranze: bastano i soldi, per rimediare ai guasti gestionali dell'arroganza e del pressapochismo. E tanti saluti alla meritocrazia...
E poi vi stupite che io pianga per una partita di calcio?

Se poi qualcuno vuole ammanirmi la solita storia che ci sono migliaia di cose più importanti del calcio, lasci stare. Lo so che il calcio è solo un gioco. Che c'è una guerra in Siria, la crisi economica continua e il riscaldamento globale ci cancellerà dalla faccia della terra, per non parlare della Mafia, del terrorismo e della povertà di interi continenti. Lo so bene.
So anche, però, che, se non c'è giustizia neppure in uno stupido gioco, è difficile credere che possa esistere altrove. Saúl ieri sera ha detto inconsapevolmente la stessa cosa con parole diverse: “Questo spogliatoio non si merita che gli capiti due volte tutto ciò”. Già, non se lo merita... Cos'è il merito? Perché così spesso, perfino in un gioco, c'è un così grande scollamento tra realtà e giustizia?

Ecco perché ieri avevo gli occhi lucidi. Li avevo anche oggi e li avrò anche domani.

Stamani, per assecondare il mio umore, ho deciso di salire a Superga, dove non ero mai stato. Salivo per la strada che mi pareva interminabile e continuavo a rimuginare gli stessi pensieri, senza trovare consolazione. “Perché mi è toccata in sorte questa squadra?”, mi chiedevo.
Forse è solo questione di prospettiva, mi sono detto: quante sono le squadre europee che possono dire di essere arrivate tre volte in finale di Coppa dei Campioni? Poche, pochissime... Non l'Arsenal, per esempio. Nè l'Anderlecht. Quante quelle che possono a ragione nutrire il dubbio di essere maledette, ogni volta che si approcciano una finale? Così, a occhio, squadre di rango come Benfica e Juventus. E quante quelle che, verosimilmente, non ci arriveranno mai o mai più? Tantissime, dallo Sporting Lisbona all'Ajax, dall'Everton al Celtic, dalla Steaua Bucarest al Napoli o alla Roma...
La verità è che la mia condizione è comune a moltissime persone, in ogni parte del mondo, tutte quelle che non tifano per poche, pochissime squadre.

Anche così, però, era difficile trovare consolazione. Essere arrivati a una o più finali non garantisce nessuna ipoteca sul futuro: la storia è fatta di momenti di cui bisogna approfittare, perché certezze non ce ne sono. Neppure PSG e Manchester City possono essere sicure, dall'alto dei propri petroldollari, di poterci arrivare, figuriamoci di vincere.
Anche il calcio, come la storia, vive di snodi fondamentali, che possono cambiare senso e verso di un'era: cosa sarebbe stato del Real, se Di Stefano fosse approdato al Barcellona? Cosa rimane di squadroni come il Bologna degli anni trenta, la formidabile Honved o lo Sporting Lisbona “dei cinque violini”, fioriti quando le coppe europee ancora non esistevano?

Come potevano sapere, i tifosi di molte di queste squadre, che non avrebbero mai più rivisto i loro club a quel livello? Che le bacheche le avrebbero riempite gli altri, altri che allora spesso nessuno conosceva? Chissà in che modo declinano la domanda “Perché mi è toccata in sorte questa squadra?”.

E il Grande Torino? Come dimenticare il Grande Torino?
Cosa significa tifare per una squadra il cui momento di gloria irripetibile è ormai dietro alle spalle? Come si sopravvive a una tale sorte? Come si convive con l'altra metà del cielo, quella bianconera, che invece ha tutto,a partire dai soldi e dal potere? Come si coesiste con la consapevolezza che la Sorte è stata tremendamente crudele, ti ha tolto non solo una squadra fenomenale ma anche un presente che probabilmente sarebbe stato molto diverso?

Se una sola delle finali dell'Atletico fosse andata diversamente, che spartiacque sarebbe stato, per la nostra storia?”, mi sono spesso chiesto. Però, davanti alla lapide di Superga, in mezzo a un meraviglioso bosco che nulla lasciava trasparire della tragedia infinita di quasi settant'anni fa, mi è parso che la mia domanda fosse piccola piccola. Che la mia voglia di lasciar perdere, di non soffrire più così tanto, non avesse senso. Cosa dovrebbe dire un tifoso del Toro? Cosa avrebbe dovuto pensare un tifoso del Toro allora, quando fu spogliato non di una vittoria, ma della Speranza? Dov'era il merito, in quello schianto? Dove la Giustizia?

Ho sostato un po' davanti alla lapide coi miei pensieri. Ho pensato a capitan Valentino e a Diego Godin. Ho pensato che i nostri guerrieri ci sono ancora.

Non ci sarà giustizia, non ci sarà merito, ma i nostri guerrieri ci sono ancora...


Es un golpe duro, pero nos levantaremos. Este es un grupo ganador. Estoy orgullosísimo de mis compañeros, vamos a seguir peleando".

Diego Godin