giovedì 27 ottobre 2016

L'altra faccia della medaglia


Granada, Rostov, Siviglia.
In una sola settimana, con un mirabile esempio di climax discendente, l'Atletico ha mostrato il meglio e il peggio di se stesso: dallo sfavillante 7-1 casalingo, alla caduta senza appello del Sanchez Pizjuan, passando per l'affermazione grigia ma indiscutibile in terra di Russia.
Cose che possono capitare, in una stagione lunga e articolata come quella che si prospetta. Con conseguenze tutt'altro che irrimediabili, anche se fastidiose (il quinto posto; la presenza insopportabile dell'insopportabile Siviglia, con tutta la sua insopportabile prosopopea, lassù; il sorpasso del Villareal). Perfino salutari, visto che riportano tutti quanti con i piedi per terra.

La brutalizzazione di quel branco di poveracci che scende in campo con la maglia del Granada ha suscitato entusiasmi immotivati ed anche un po' ridicoli, utili solo a distogliere l'attenzione dai problemi veri della squadra e a galvanizzare oltremodo un ambiente da sempre soggetto a sbalzi umorali insensati. Per il mio modo di concepire il calcio, pesa molto di più l'ennesimo gol incassato dal limite dell'area (zona che i nostri centrocampisti coprono poco e male) che non il diluvio biancorosso venuto dopo: bello, a tratti anche esaltante, ma ottenuto contro un gruppo allo sbando, sia moralmente che tatticamente.

Molto più indicativa la vittoria di Rostov, contro una squadra imbattuta in casa da 23 partite consecutive: una dimostrazione di carattere non da poco, dopo un viaggio di migliaia di chilometri, contro una squadra rognosa da affrontare. Tuttavia anche in Russia, a ben vedere, erano emersi problemi diversi, sintetizzabili alla voce “mancanza di efficacia sottoporta”.
Se un filo conduttore si può trovare per quest'ultima tranche di partite, si tratta sicuramente di questo: lo straordinario momento di forma di Carrasco ha nascosto efficacemente tutte le magagne, a partire dallo sterile possesso-palla emerso sulle rive del Don. Appena il belga, comprensibilmente, si è preso una pausa, è arrivata la caduta.

Siviglia infatti ha visto l'Atletico giocare con buon piglio per il primo quarto d'ora e poi basta, con i colchoneros messi sotto sia sul piano dell'intensità che su quello del gioco. Se quest'ultimo avrebbe potuto non essere un problema, vista la lunga tradizione atletica di partite vinte in modo apparentemente (e sottolineo apparentemente) fortunoso, subire l'intensità degli uomini di Sanpaoli è stato un vero e proprio shock.
La partita è stata già efficacemente analizzata da altri, pertanto non mi dilungherò. Posso solo dire che Sanpaoli, riempiendo la nostra trequarti di mezzepunte, ha completamente disattivato i nostri terzini, bloccato il nostro doble pivote e costretto le nostre ali a preoccuparsi più della fase difensiva che di quella offensiva. Il tutto senza che Simeone sapesse proporre adeguate contromosse, salvo rinforzare il centrocampo con l'ingresso di Tiago al posto di uno spento Carrasco.

D'altra parte, come dicevamo lo scorso post, non sono gli uomini schierati, ma l'atteggiamento in campo a fare la differenza: dal Granada al Siviglia, nulla è cambiato nello schieramento iniziale, ma tutto sul piano del risultato e della conseguente sicurezza in campo. D'altra parte, con praticamente gli stessi uomini in campo, l'Atletico aveva proposto la solita partita di grande piglio difensivo e scarsa efficacia offensiva anche contro il Barcellona, cogliendo il pareggio con una giocata estemporanea di Correa ed evitando scientemente di affondare il colpo nel momento di maggiore difficoltà degli avversari.

La nuova forma di gioco dell'Atletico è stata recentemente descritta in maniera abbastanza convincente ma non completa (almeno per il sottoscritto), quindi non starò a ripetere concetti già messi per iscritto.
Preferisco, se permettete, concentrarmi su ciò che non va (il che spiegherebbe anche perché l'analisi non mi convinca del tutto): a mio parere, la profonda, evidente, mancanza di convinzione di Simeone nel modulo che sta portando avanti, quello che a tutti gli effetti potremmo definire un 4-2-4 variabile.
Mi sembra, infatti, che il Cholo sia in mezzo al guado (e la squadra con lui): ha voluto un modulo più offensivo, ha modificato interpreti e posizioni in campo di conseguenza, ma non ha valutato fino in fondo le conseguenze del nuovo corso.
Non è possibile chiedere a Correa e Carrasco un'efficacia difensiva che (soprattutto il giovane argentino) non hanno e non possono avere. Non si può sperare che Koke e Gabi offrano la stessa protezione offerta dal vecchio centrocampo “a quattro centrali”. Non si può pretendere che Savic e Godin (e men che meno Gimenez) abbiano la velocità necessaria a coprire le inevitabili smagliature del centrocampo, né che i terzini agiscano come ali aggiunte quando, di fatto, gli esterni, se non ali classiche, certo sono ora giocatori molto più offensivi di prima, quando a chi era in quella posizione si chiedeva “solo” di essere associativo sulla trequarti e non di inserirsi in area.
Ovverosia, non si può imbottire la squadra di giocatori d'attacco e poi chiedere loro di massacrarsi in una doppia fase durissima, senza modificare attitudini e comportamento dei compagni. Sembra quasi che Simeone non abbia calcolato tutto questo, ma che, direi quasi mourinhianamente, abbia semplicemente scelto di affastellare giocatori in avanti senza capire che ciò comporta anche una riprogrammazione dell'atteggiamento dell'intero undici in campo. Vale a dire, o si accetta di poter subire qualche rete in più in considerazione di quelle che si segneranno, o tanto vale proporre un modulo meno spregiudicato.

La lezione di Siviglia, a mio parere, è tutta qui: Sanpaoli ha rischiato pesantemente e, anche aiutato dalla stanchezza dei colchoneros, ha vinto. La coerenza ha pagato, insomma, perché, per quanto il gol sia stato estemporaneo, è pur vero che i sevillistas hanno ampiamente meritato ai punti la vittoria. Simeone, schierato un undici d'assalto, ha impostato una partita non completamente coerente con la scelta degli uomini.
Da qui sono dipesi e dipendono tutta una serie di problemi specifici, da Correa che sbaglia in continuazione sottoporta a un Koke non completamente efficace in copertura, da un Gameiro impalpabile in area a un Griezmann che talvolta si perde tra mille compiti specifici, da una difesa che talvolta si fa cogliere sbilanciata a un centrocampo che non copre la trequarti.

C'è insomma molto da ricalibrare e da valutare. Un progetto tattico non si improvvisa in poche partite, un atteggiamento non si modifica in un mese. Soprattutto, i risultati di un cambiamento così grande non si giudicano da partite come quelle col Granada e lo Sporting Gijon: se è apprezzabile che, contro avversari deboli, non ci si accontenti di un 1-0 nei primi minuti (col rischio di subire un pareggio negli ultimi minuti, come diverse volte l'anno scorso), lo è meno che le convinzioni vacillino contro grandi avversari.
“Rinascere” è un processo lungo e doloroso, in cui spesso non si sa, a priori, di cosa si avrà bisogno. Molte necessità si scoprono solo una volta che la lunga gestazione è terminata... Pertanto, possiamo forse perdonare a Simeone di aver sbagliato alcuni acquisti (eh già, così la penso, eccoci qui...): Gameiro è un ottimo attaccante, ma non mi pare completamente adatto al ruolo che dovrebbe ricoprire nel nuovo sistema. Non è un caso che il Cholo gli preferisca una punta più pesante come l'ormai depotenziato (eccolo, l'altro errore...) Fernando Torres. Mentre Gaitan langue in panchina e un Correa volenteroso ma confusionario girovaga per la fascia più preoccupato di macinare chilometri difensivi che di concentrarsi sulla porta avversaria.

Forse il quinto posto ci punisce eccessivamente, ma il primo della settimana scorsa ci premiava fin troppo, col senno del dopo Siviglia. A parte le due corazzate, i cui punti hanno molteplici e non sempre limpide spiegazioni e che quindi meriterebbero un discorso a parte, ci precedono anche Villareal e Siviglia e per un buon motivo: sanno a che gioco giocano e hanno comprato giocatori con un profilo ben preciso, perfetto per il loro progetto. Simeone invece sembra (e non è la prima volta) aver cambiato idea in corsa, o solo averla messa a fuoco troppo tardi. Al di là delle luccicanti goleade, questa è la realtà.



Passando ad altro, due parole sulla assurda querelle con l'Athletic Bilbao, cui, secondo un membro della giunta direttiva, avremmo rubato nome, stemma e colori. Di fronte a certe uscite, lo confesso, rimango senza parole. Come al solito, a farla da padrone è l'ignoranza, anche e soprattutto della propria storia. Vediamo di fare, sia pure velocemente, un po' di chiarezza.
Prima di tutto, l'Atletico è nato come filiale madrilena dell'Athletic Bilbao, per cui direi proprio che fosse inevitabile condividere nome, colori e logo. Noi avremmo usurpato cosa, di grazia? Nell'atto di fondazione del club, è la sede centrale basca a concedere l'utilizzo alla filiale capitolina.
Poi, la questione della maglia: come molti sapranno, all'inizio era bianca e blu, come quella dei Blackburn Rovers. Poi, un giorno, un incaricato del club bilbaino, in Inghilterra per lavoro, non trovando maglie di ricambio, si ridusse a comprare una cinquantina di casacche del Southampton. Non fosse stato per i baschi, avremmo una maglia diversa, insomma.
Infine, sanno a Bilbao quante coppe ci devono? Sì, esatto, ci devono. Nello statuto dell'Athletic Club de Madrid era scritto chiaramente che la neonata società non avrebbe potuto partecipare a nessuna competizione cui fosse iscritta la squadra bilbaina. Anzi, i suoi giocatori avrebbero dovuto rafforzare la sede centrale quando fosse stato necessario. Vale a dire che per più di dieci anni non abbiamo potuto partecipare alla Copa del Rey e che in molte delle vittorie dell'Athletic Bilbao in questa competizione c'erano in campo da due a sei giocatori della filiale madrilena. Quindi: chi avrebbe sfruttato chi?
Tra l'altro, se siamo la seconda squadra della capitale, poco considerata dall'elité economico-politica della città, lo dobbiamo alla nomea di “stranieri” che la genesi bilbaina ci ha lasciato addosso per anni.
Non credo ci sia nient'altro da aggiungere, no? Di fronte a certe sciocchezze, non vale neppure la pena di sprecare del tempo: la capacità delle parole di convincere gli idioti a guardare in faccia la realtà è, temo, pesantemente sopravvalutata.

lunedì 3 ottobre 2016

Ritrovarsi



Finalmente, come nelle migliori fiabe, i nostri eroi, liberatisi dalle stregonerie che li avevano irretiti e indeboliti fino ad allora, tornati se stessi, hanno sconfitto i cattivi e salvato la bella principessa. Questo avremmo scritto, se fossimo stati uno dei fratelli Grimm o Perrault.
Oppure, a voler continuare a saccheggiare la letteratura, i nostri eroi, come in ogni romanzo di formazione che si rispetti, dopo aver affrontato difficoltà di ogni sorta e compreso i propri limiti ma anche le proprie qualità, ritrovano se stessi e si scoprono, per di più, migliorati e più fiduciosi nelle proprie capacità.

Comunque lo si voglia vedere, il filotto di partite della seconda metà di settembre ci ha riconsegnato l’Atletico che ci ricordavamo: spietato, mostruosamente cinico, capace di buttare il cuore oltre l’ostacolo e di vincere con la forza del gruppo (e della tecnica, perché tanto scarsi non siamo).
Inoltre, abbiamo potuto vedere anche un Atletico capace di offrire un calcio offensivo di livello ottimo (Gijon) e finalmente pronto a rischiare per portare a casa l’intera posta (ieri al Mestalla, anche se un attacco Griezmann-Gameiro-Torres-Carrasco con un centrocampo Koke-Gabi e una coppia difensiva poco rodata, ancorché ottima, come Savic-Lucas, è forse anche troppo…).
Non solo grande organizzazione difensiva, quindi, ma anche un atteggiamento finalmente propositivo, almeno nelle gare alla portata: capisco che Barcellona e Bayern possano richiedere un atteggiamento più prudente (parlo di atteggiamento, attenzione, perché la formazione schierata contro i tedeschi e i blaugrana non era certo difensiva), però non si può accettare che questo accada contro le piccole o la media borghesia, spagnola ed europea. Non si può accettare se vogliamo che gli altri ci considerino per quello che ormai siamo diventati: una potenza continentale. Magari non una super-potenza, ma certamente una squadra che viene affrontata con un timore solo di poco inferiore a quello che ispirano pochi altri club in Europa. Il tipo di timore, intendo, che permette di vincere (o quantomeno indirizzare) le partite ancora prima di scendere in campo. Quel sottile disagio che spinge gli avversari a scendere in campo inquieti perché consapevoli che al primo errore, che inevitabilmente ci sarà, saranno puniti. L’inquietudine, tra l’altro, che ormai prende gli avversari di fronte al boato del Calderon, ormai per tutti stadio dal quale raramente si esce indenni.
Ecco, se forse c’è una buona notizia, o meglio una notizia migliore delle altre, da estrarre da questo tour de force settembrino, è questa: Simeone e i suoi sembrano veramente consapevoli di essere una big, una squadra che deve vincere, non accontentarsi di un pareggio o una vittoria artigliata facendo le barricate in trasferta. Questa è forse la lezione più evidente di Valencia, tanto più degna di nota perché quello del Mestalla non è stato un caso isolato.
Per di più, Koke sembra finalmente essersi appropriato delle chiavi del centrocampo (magari perché finalmente Simeone, dopo tre anni di dubbi, si è deciso…) e ha quindi liberato spazio sull’esterno per giocatori di maggior velocità e caratura offensiva.
Così facendo, i colchoneros si sono arrampicati in cima alla Liga e guardano dall’alto in basso tutti quanti nel proprio girone di Champions’. La strada è ancora lunga, ovviamente, ma solo un mese fa nessuno avrebbe scommesso su questi risultati, anche perché pure ai nostri avversari le cose non vanno benissimo: tutti hanno problemi, chi più chi meno (e alcuni paiono decisamente meno attrezzati di quanto si creda per risolverli).

Tutto bene, dunque? O meglio, tutti felici e contenti?
Ovviamente no. Questioni ne rimangono parecchie. Cito alla rinfusa: il pessimo finale di Eindhoven; la mancanza di coraggio di Barcellona (quando, usciti Busquets e Messi, si doveva osare di più); la perdurante, anche se diminuita, difficoltà a fare gioco contro avversari organizzati (PSV, Deportivo, Valencia); l’incapacità di uccidere le partite (non col Gijon, sì col Valencia); alcuni inspiegabili sbandamenti difensivi che solo per caso non si traducono in gol avversari e ci regalano quindi una fama di bunker non sempre completamente meritata; la nullità totale sui calci piazzati, antico marchio di fabbrica della casa; la tendenza a buttare via maldestramente la palla nei momenti concitati della gara o comunque a giocarla con percentuali di errore nei passaggi altissime (qualcosa di inconcepibile per chi fa del contropiede una tra le armi principali del proprio gioco).
E poi, ovviamente, i RIGORI.
Ieri la faccia di Griezmann, prima del rigore, era tutta un programma: si capiva che avrebbe sbagliato, senza ombra di dubbio. Non è capace, punto. Non si tratta di tecnica, si tratta di testa. Di freddezza. Probabilmente appartiene a quel nutrito gruppo di attaccanti di talento che, se costretti a pensare troppo a ciò che invece d’istinto sanno fare benissimo, perdono lucidità. Poco male, se non fosse per questa assurda insistenza sul francese come rigorista. Ci è già costata la finale di Milano, avrebbe potuto costarci la vittoria sul Bayern.
Non sarebbe ora, quindi, di puntare su altri? Gameiro, per esempio. Altri nomi fateli voi.
Per meglio dire, non sarebbe il caso di occuparsi in maniera più specifica, più professionale, della questione rigori? Tra un Oblak che in una finale non fa il gesto di pararne neppure uno e un Juanfran che, dopo la vittoria sul PSV dell’anno scorso, confessa candidamente che a Majadahonda non si fanno specifici allenamenti sui rigori, a me è venuto il dubbio che questo fondamentale sia bellamente ignorato, in casa biancorossa. E mi domando: possibile? Possibile che una squadra che affronta la Champions’ con un atteggiamento in molti casi prudente non si prepari costantemente alla possibilità che 120 minuti possano non bastare? Possibile che una squadra che spesso fatica a segnare non si prepari per sfruttare ogni minima occasione (e certo i rigori sono tra le più ghiotte)? Possibile che in una finale di Champions’, con l’avversario sulle ginocchia, si scelga deliberatamente di non affondare il colpo ed arrivare a giocarsi tutto in un contesto al quale non si è adeguatamente preparati? Naturalmente un allenamento specifico non è sempre garanzia di successo, ma certamente la sua mancanza lo è ancora meno.

Dopo la finale di Milano, qualcuno di voi ha detto che alla fine è tutta questione di dettagli e che, forse, la sconfitta si spiegava solo così: mancava ancora qualcosa.

Ora che abbiamo a disposizione “il miglior Atletico della storia” (BUM! E quello della delantera de cristal? E quello de los tre puñales? Non è dato sapere…), non dobbiamo cadere sui dettagli. Rigori in primis. È da queste e altre cose che si capirà quale crediamo sia la nostra dimensione.