Granada, Rostov,
Siviglia.
In una sola settimana,
con un mirabile esempio di climax discendente, l'Atletico ha
mostrato il meglio e il peggio di se stesso: dallo sfavillante 7-1
casalingo, alla caduta senza appello del Sanchez Pizjuan,
passando per l'affermazione grigia ma indiscutibile in terra di
Russia.
Cose che possono
capitare, in una stagione lunga e articolata come quella che si
prospetta. Con conseguenze tutt'altro che irrimediabili, anche se
fastidiose (il quinto posto; la presenza insopportabile
dell'insopportabile Siviglia, con tutta la sua insopportabile
prosopopea, lassù; il sorpasso del Villareal). Perfino salutari,
visto che riportano tutti quanti con i piedi per terra.
La brutalizzazione di
quel branco di poveracci che scende in campo con la maglia del
Granada ha suscitato entusiasmi immotivati ed anche un po' ridicoli,
utili solo a distogliere l'attenzione dai problemi veri della squadra
e a galvanizzare oltremodo un ambiente da sempre soggetto a sbalzi
umorali insensati. Per il mio modo di concepire il calcio, pesa molto
di più l'ennesimo gol incassato dal limite dell'area (zona che i
nostri centrocampisti coprono poco e male) che non il diluvio
biancorosso venuto dopo: bello, a tratti anche esaltante, ma ottenuto
contro un gruppo allo sbando, sia moralmente che tatticamente.
Molto più indicativa la
vittoria di Rostov, contro una squadra imbattuta in casa da 23
partite consecutive: una dimostrazione di carattere non da poco, dopo
un viaggio di migliaia di chilometri, contro una squadra rognosa da
affrontare. Tuttavia anche in Russia, a ben vedere, erano emersi
problemi diversi, sintetizzabili alla voce “mancanza di efficacia
sottoporta”.
Se un filo conduttore si
può trovare per quest'ultima tranche di partite, si tratta
sicuramente di questo: lo straordinario momento di forma di Carrasco
ha nascosto efficacemente tutte le magagne, a partire dallo sterile
possesso-palla emerso sulle rive del Don. Appena il belga,
comprensibilmente, si è preso una pausa, è arrivata la caduta.
Siviglia infatti ha visto
l'Atletico giocare con buon piglio per il primo quarto d'ora e poi
basta, con i colchoneros messi sotto sia sul piano
dell'intensità che su quello del gioco. Se quest'ultimo avrebbe
potuto non essere un problema, vista la lunga tradizione atletica di
partite vinte in modo apparentemente (e sottolineo apparentemente)
fortunoso, subire l'intensità degli uomini di Sanpaoli è stato un
vero e proprio shock.
La partita è stata già
efficacemente analizzata da altri,
pertanto non mi dilungherò. Posso solo dire che Sanpaoli, riempiendo
la nostra trequarti di mezzepunte, ha completamente disattivato i
nostri terzini, bloccato il nostro doble pivote e costretto le
nostre ali a preoccuparsi più della fase difensiva che di quella
offensiva. Il tutto senza che Simeone sapesse proporre adeguate
contromosse, salvo rinforzare il centrocampo con l'ingresso di Tiago
al posto di uno spento Carrasco.
D'altra parte, come
dicevamo lo scorso post, non sono gli uomini schierati, ma
l'atteggiamento in campo a fare la differenza: dal Granada al
Siviglia, nulla è cambiato nello schieramento iniziale, ma tutto sul
piano del risultato e della conseguente sicurezza in campo. D'altra
parte, con praticamente gli stessi uomini in campo, l'Atletico aveva
proposto la solita partita di grande piglio difensivo e scarsa
efficacia offensiva anche contro il Barcellona,
cogliendo il pareggio con una giocata estemporanea di Correa ed
evitando scientemente di affondare il colpo nel momento di maggiore
difficoltà degli avversari.
La nuova forma di gioco
dell'Atletico è stata recentemente descritta
in maniera abbastanza convincente ma non completa (almeno per il
sottoscritto), quindi non starò a ripetere concetti già messi per
iscritto.
Preferisco, se
permettete, concentrarmi su ciò che non va (il che spiegherebbe
anche perché l'analisi non mi convinca del tutto): a mio parere, la
profonda, evidente, mancanza di convinzione di Simeone nel
modulo che sta portando avanti, quello che a tutti gli effetti
potremmo definire un 4-2-4 variabile.
Mi sembra, infatti, che
il Cholo sia in mezzo al guado (e la squadra con lui): ha
voluto un modulo più offensivo, ha modificato interpreti e posizioni
in campo di conseguenza, ma non ha valutato fino in fondo le
conseguenze del nuovo corso.
Non è possibile chiedere
a Correa e Carrasco un'efficacia difensiva che (soprattutto il
giovane argentino) non hanno e non possono avere. Non si può sperare
che Koke e Gabi offrano la stessa protezione offerta dal
vecchio centrocampo “a quattro centrali”. Non si può pretendere
che Savic e Godin (e men che meno Gimenez) abbiano la
velocità necessaria a coprire le inevitabili smagliature del
centrocampo, né che i terzini agiscano come ali aggiunte
quando, di fatto, gli esterni, se non ali classiche, certo sono ora
giocatori molto più offensivi di prima, quando a chi era in quella
posizione si chiedeva “solo” di essere associativo sulla
trequarti e non di inserirsi in area.
Ovverosia, non si può
imbottire la squadra di giocatori d'attacco e poi chiedere loro di
massacrarsi in una doppia fase durissima, senza modificare
attitudini e comportamento dei compagni. Sembra quasi che Simeone
non abbia calcolato tutto questo, ma che, direi quasi
mourinhianamente, abbia semplicemente scelto di affastellare
giocatori in avanti senza capire che ciò comporta anche una
riprogrammazione dell'atteggiamento dell'intero undici in
campo. Vale a dire, o si accetta di poter subire qualche rete in più
in considerazione di quelle che si segneranno, o tanto vale proporre
un modulo meno spregiudicato.
La lezione di Siviglia, a
mio parere, è tutta qui: Sanpaoli ha rischiato pesantemente e, anche
aiutato dalla stanchezza dei colchoneros, ha vinto. La
coerenza ha pagato, insomma, perché, per quanto il gol sia stato
estemporaneo, è pur vero che i sevillistas hanno ampiamente
meritato ai punti la vittoria. Simeone, schierato un undici
d'assalto, ha impostato una partita non completamente coerente con la
scelta degli uomini.
Da qui sono dipesi e
dipendono tutta una serie di problemi specifici, da Correa che
sbaglia in continuazione sottoporta a un Koke non
completamente efficace in copertura, da un Gameiro impalpabile
in area a un Griezmann che talvolta si perde tra mille compiti
specifici, da una difesa che talvolta si fa cogliere
sbilanciata a un centrocampo che non copre la trequarti.
C'è insomma molto da
ricalibrare e da valutare. Un progetto tattico non si
improvvisa in poche partite, un atteggiamento non si modifica in un
mese. Soprattutto, i risultati di un cambiamento così grande non si
giudicano da partite come quelle col Granada e lo Sporting Gijon: se
è apprezzabile che, contro avversari deboli, non ci si accontenti di
un 1-0 nei primi minuti (col rischio di subire un pareggio negli
ultimi minuti, come diverse volte l'anno scorso), lo è meno che le
convinzioni vacillino contro grandi avversari.
“Rinascere” è un
processo lungo e doloroso, in cui spesso non si sa, a priori, di cosa
si avrà bisogno. Molte necessità si scoprono solo una volta che la
lunga gestazione è terminata... Pertanto, possiamo forse perdonare a
Simeone di aver sbagliato alcuni acquisti (eh già, così la
penso, eccoci qui...): Gameiro è un ottimo attaccante, ma non
mi pare completamente adatto al ruolo che dovrebbe ricoprire nel
nuovo sistema. Non è un caso che il Cholo gli preferisca una
punta più pesante come l'ormai depotenziato (eccolo, l'altro
errore...) Fernando Torres. Mentre Gaitan langue in
panchina e un Correa volenteroso ma confusionario girovaga per la
fascia più preoccupato di macinare chilometri difensivi che di
concentrarsi sulla porta avversaria.
Forse il quinto posto ci
punisce eccessivamente, ma il primo della settimana scorsa ci
premiava fin troppo, col senno del dopo Siviglia. A parte le due
corazzate, i cui punti hanno molteplici e non sempre limpide
spiegazioni e che quindi meriterebbero un discorso a parte, ci
precedono anche Villareal e Siviglia e per un buon motivo: sanno a
che gioco giocano e hanno comprato giocatori con un profilo ben
preciso, perfetto per il loro progetto. Simeone invece sembra (e non
è la prima volta) aver cambiato idea in corsa, o solo averla messa a
fuoco troppo tardi. Al di là delle luccicanti goleade, questa è la
realtà.
Passando ad altro, due
parole sulla assurda querelle
con l'Athletic Bilbao, cui, secondo un membro della giunta
direttiva, avremmo rubato nome, stemma e colori. Di fronte a certe
uscite, lo confesso, rimango senza parole. Come al solito, a farla da
padrone è l'ignoranza, anche e soprattutto della propria
storia. Vediamo di fare, sia pure velocemente, un po' di chiarezza.
Prima di tutto,
l'Atletico è nato come filiale madrilena dell'Athletic
Bilbao, per cui direi proprio che fosse inevitabile condividere nome,
colori e logo. Noi avremmo usurpato cosa, di grazia? Nell'atto di
fondazione del club, è la sede centrale basca a concedere l'utilizzo
alla filiale capitolina.
Poi, la questione della
maglia: come molti sapranno, all'inizio era bianca e blu, come
quella dei Blackburn Rovers. Poi, un giorno, un incaricato del club
bilbaino, in Inghilterra per lavoro, non trovando maglie di ricambio,
si ridusse a comprare una cinquantina di casacche del Southampton.
Non fosse stato per i baschi, avremmo una maglia diversa, insomma.
Infine, sanno a Bilbao
quante coppe ci devono? Sì, esatto, ci devono. Nello
statuto dell'Athletic Club de Madrid era scritto chiaramente che la
neonata società non avrebbe potuto partecipare a nessuna
competizione cui fosse iscritta la squadra bilbaina. Anzi, i suoi
giocatori avrebbero dovuto rafforzare la sede centrale quando fosse
stato necessario. Vale a dire che per più di dieci anni non abbiamo
potuto partecipare alla Copa del Rey e che in molte
delle vittorie dell'Athletic Bilbao in questa competizione c'erano in
campo da due a sei giocatori della filiale madrilena. Quindi: chi
avrebbe sfruttato chi?
Tra l'altro, se siamo la
seconda squadra della capitale, poco considerata dall'elité
economico-politica della città, lo dobbiamo alla nomea di
“stranieri” che la genesi bilbaina ci ha lasciato addosso
per anni.
Non credo ci sia
nient'altro da aggiungere, no? Di fronte a certe sciocchezze, non
vale neppure la pena di sprecare del tempo: la capacità delle parole
di convincere gli idioti a guardare in faccia la realtà è, temo,
pesantemente sopravvalutata.