Finalmente, come nelle migliori
fiabe, i nostri eroi, liberatisi dalle stregonerie che li avevano irretiti e
indeboliti fino ad allora, tornati se stessi, hanno sconfitto i cattivi e
salvato la bella principessa. Questo avremmo scritto, se fossimo stati uno dei
fratelli Grimm o Perrault.
Oppure, a voler continuare a
saccheggiare la letteratura, i nostri eroi, come in ogni romanzo di formazione
che si rispetti, dopo aver affrontato difficoltà di ogni sorta e compreso i
propri limiti ma anche le proprie qualità, ritrovano se stessi e si scoprono,
per di più, migliorati e più fiduciosi nelle proprie capacità.
Comunque lo si voglia vedere, il
filotto di partite della seconda metà di settembre ci ha riconsegnato l’Atletico
che ci ricordavamo: spietato, mostruosamente cinico, capace di buttare il cuore
oltre l’ostacolo e di vincere con la forza del gruppo (e della tecnica, perché tanto
scarsi non siamo).
Inoltre, abbiamo potuto vedere
anche un Atletico capace di offrire un calcio offensivo di livello ottimo
(Gijon) e finalmente pronto a rischiare per portare a casa l’intera posta (ieri
al Mestalla, anche se un attacco Griezmann-Gameiro-Torres-Carrasco con un
centrocampo Koke-Gabi e una coppia difensiva poco rodata, ancorché ottima, come
Savic-Lucas, è forse anche troppo…).
Non solo grande organizzazione
difensiva, quindi, ma anche un atteggiamento finalmente propositivo, almeno
nelle gare alla portata: capisco che Barcellona e Bayern possano richiedere un
atteggiamento più prudente (parlo di atteggiamento, attenzione, perché la
formazione schierata contro i tedeschi e i blaugrana non era certo difensiva),
però non si può accettare che questo accada contro le piccole o la media
borghesia, spagnola ed europea. Non si può accettare se vogliamo che gli altri
ci considerino per quello che ormai siamo diventati: una potenza continentale.
Magari non una super-potenza, ma certamente una squadra che viene affrontata
con un timore solo di poco inferiore a quello che ispirano pochi altri club in
Europa. Il tipo di timore, intendo, che permette di vincere (o quantomeno
indirizzare) le partite ancora prima di scendere in campo. Quel sottile disagio
che spinge gli avversari a scendere in campo inquieti perché consapevoli che al
primo errore, che inevitabilmente ci sarà, saranno puniti. L’inquietudine, tra
l’altro, che ormai prende gli avversari di fronte al boato del Calderon, ormai
per tutti stadio dal quale raramente si esce indenni.
Ecco, se forse c’è una buona
notizia, o meglio una notizia migliore delle altre, da estrarre da questo tour
de force settembrino, è questa: Simeone e i suoi sembrano veramente consapevoli
di essere una big, una squadra che deve vincere, non accontentarsi di un
pareggio o una vittoria artigliata facendo le barricate in trasferta. Questa è
forse la lezione più evidente di Valencia, tanto più degna di nota perché quello
del Mestalla non è stato un caso isolato.
Per di più, Koke sembra
finalmente essersi appropriato delle chiavi del centrocampo (magari perché finalmente
Simeone, dopo tre anni di dubbi, si è deciso…) e ha quindi liberato spazio sull’esterno
per giocatori di maggior velocità e caratura offensiva.
Così facendo, i colchoneros si sono arrampicati in cima
alla Liga e guardano dall’alto in basso tutti quanti nel proprio girone di
Champions’. La strada è ancora lunga, ovviamente, ma solo un mese fa nessuno
avrebbe scommesso su questi risultati, anche perché pure ai nostri avversari le
cose non vanno benissimo: tutti hanno problemi, chi più chi meno (e alcuni
paiono decisamente meno attrezzati di quanto si creda per risolverli).
Tutto bene, dunque? O meglio, tutti felici e contenti?
Ovviamente no. Questioni ne rimangono parecchie. Cito alla rinfusa: il pessimo
finale di Eindhoven; la mancanza di coraggio di Barcellona (quando, usciti
Busquets e Messi, si doveva osare di più); la perdurante, anche se diminuita,
difficoltà a fare gioco contro avversari organizzati (PSV, Deportivo,
Valencia); l’incapacità di uccidere le partite (non col Gijon, sì col
Valencia); alcuni inspiegabili sbandamenti difensivi che solo per caso non si
traducono in gol avversari e ci regalano quindi una fama di bunker non sempre
completamente meritata; la nullità totale sui calci piazzati, antico marchio di
fabbrica della casa; la tendenza a buttare via maldestramente la palla nei
momenti concitati della gara o comunque a giocarla con percentuali di errore
nei passaggi altissime (qualcosa di inconcepibile per chi fa del contropiede una
tra le armi principali del proprio gioco).
E poi, ovviamente, i RIGORI.
Ieri la faccia di Griezmann, prima del rigore, era tutta
un programma: si capiva che avrebbe sbagliato, senza ombra di dubbio. Non è
capace, punto. Non si tratta di tecnica, si tratta di testa. Di freddezza. Probabilmente
appartiene a quel nutrito gruppo di attaccanti di talento che, se costretti a
pensare troppo a ciò che invece d’istinto sanno fare benissimo, perdono
lucidità. Poco male, se non fosse per questa assurda insistenza sul francese
come rigorista. Ci è già costata la finale di Milano, avrebbe potuto costarci
la vittoria sul Bayern.
Non sarebbe ora, quindi, di
puntare su altri? Gameiro, per
esempio. Altri nomi fateli voi.
Per meglio dire, non sarebbe il
caso di occuparsi in maniera più specifica, più professionale, della questione
rigori? Tra un Oblak che in una
finale non fa il gesto di pararne neppure uno e un Juanfran che, dopo la vittoria sul PSV dell’anno scorso, confessa
candidamente che a Majadahonda non si fanno specifici allenamenti sui rigori, a
me è venuto il dubbio che questo fondamentale sia bellamente ignorato, in casa
biancorossa. E mi domando: possibile? Possibile che una squadra che affronta la
Champions’ con un atteggiamento in molti casi prudente non si prepari costantemente
alla possibilità che 120 minuti possano non bastare? Possibile che una squadra
che spesso fatica a segnare non si prepari per sfruttare ogni minima occasione
(e certo i rigori sono tra le più ghiotte)? Possibile che in una finale di
Champions’, con l’avversario sulle ginocchia, si scelga deliberatamente di non
affondare il colpo ed arrivare a giocarsi tutto in un contesto al quale non si
è adeguatamente preparati? Naturalmente un allenamento specifico non è sempre
garanzia di successo, ma certamente la sua mancanza lo è ancora meno.
Dopo la finale di Milano,
qualcuno di voi ha detto che alla fine è tutta questione di dettagli e che,
forse, la sconfitta si spiegava solo così: mancava ancora qualcosa.
Ora che abbiamo a disposizione “il miglior Atletico della storia” (BUM! E quello della delantera de cristal? E quello de los tre puñales? Non è dato sapere…), non dobbiamo cadere sui dettagli. Rigori in primis. È da queste e altre cose che si capirà quale crediamo sia la nostra dimensione.
Ora che abbiamo a disposizione “il miglior Atletico della storia” (BUM! E quello della delantera de cristal? E quello de los tre puñales? Non è dato sapere…), non dobbiamo cadere sui dettagli. Rigori in primis. È da queste e altre cose che si capirà quale crediamo sia la nostra dimensione.
I rigori secondo me dovrebbero batterli gabi o gameiro, hanno potenza e precisione dal dischetto. Griezmann pensa sia questione di fortuna e che ne sbaglierà altri, però per puntare al pallone d'oro credo abbia bisogno di segnare anche su rigore, è un bel dilemma..
RispondiEliminaI limiti di Simeone vengono a galla nei momenti topici....morirà con le sue idee....idee certamente ottime ma che con un briciolo di intelligenza potrebbero essere affinate in modo tale da distruggere gli errori....
RispondiEliminaPerder 2 finales es un fracaso,perseverare commettendo gli stessi errori nei momenti topici é quantomeno discutibile.