Avrei voluto
scrivere della vittoria di Bilbao, del ritorno di Diego, delle
prospettive, tattiche e sportive, per la seconda parte della
stagione. Avrei voluto, appunto.
Ma poi ho letto
della morte di Don Luis Aragones.
E questo è il
post che mai avrei voluto scrivere, quello che mi dà più dolore.
Perchè Luis
Aragones non è semplicemente stato un grande giocatore
dell'Atletico, con 372 presenze in biancorosso; non detiene soltanto
il record di gol segnati coi colchoneros, 172 tra tutte le
competizioni.
È
stato l'Atletico Madrid.
C'era nella
notte di Bruxelles, quando invitò i compagni a non farsi abbattere e
a pensare alla partita successiva. C'era quando al Calderon
l'Independiente venne battuta 2-0 e ci laureammo campioni del mondo.
C'era quando l'Atletico fu promosso di nuovo in Prima Divisione.
C'era quando tornammo a vincere, nel 1985, dopo anni di disastro tecnico, morale e sportivo.
C'era ancora, sempre lui, quando nel 1992 saccheggiammo il Bernabeu
con una squadra fantastica e sembrammo finalmente riuscire a
costruire qualcosa nella palude del Gilismo.
Quest'uomo
brusco, diretto, amante “dei tori, della televisione, dei libri e
del teatro”, capace di affrontare umiliazioni e insulti pur di
difendere le proprie idee e di fare ciò che riteneva giusto, se n'è
andato così, a 75 anni, in silenzio, come piaceva a lui, che non ha
mai amato le parole inutili buone solo per mettersi in mostra. Lui,
che della vita a schiena dritta aveva fatto il suo credo. Lui, che
credeva che la sua rotta fosse tracciata solo dalla faccia onesta
che, la sera, avrebbe visto nello specchio.
Lui, che non ha
esitato a dire più volte, con chiarezza, che gli attuali padroni del
club sono una sciagura, quegli stessi miserabili che, dopo averlo
allontanato per le sue parole, ora raccontano urbi et orbi del
loro splendido rapporto con Luis.
Di fronte a una
notizia così, non ci sono altre parole. Sentiamo solo di aver perso
una parte della nostra identità, un faro di rigore e onestà nel
buio di un mondo piagato da opportunisti, ipocriti e inetti.
Mi piace
pensare che, prima di lasciarci, abbia volto un'ultima volta i suoi
pensieri alla squadra in cui amava dire di essere “cresciuto e
diventato uomo”.
A lui non
posso dedicare altro che le parole di un altro grande colchonero,
il portiere Miguel San Romàn:
“Non
concepisco la mia vita senza l'essere stato parte dell'Atletico
Madrid”
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